Fin da quando il genere umano ha scoperto le potenzialità offerte dai traffici marittimi, altri esseri umani hanno colto l’opportunità di conseguire facili guadagni colpendo e depredando le navi ad essi dedite.
Ciò accadeva frequentemente già in epoca romana, come nel 67 a.C. quando Pompeo Magno si trovò a combattere contro i pirati di Cilicia, e accade ancora oggi in varie parti del mondo con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti.
In particolare, in questo millennio si contano due zone ad alto rischio: la prima si trova in un’area abbastanza ristretta nei pressi dello stretto di Malacca, nel sud – est asiatico, mentre la seconda, sulla quale ci soffermeremo maggiormente, interessa una porzione di mare decisamente più ampia, comprendente il Mar Rosso meridionale e buona parte dell’Oceano Indiano settentrionale, all’interno della quale operano, oramai da decenni, i cosiddetti “pirati somali”, giunti recentemente agli onori della cronaca mondiale per aver attaccato ripetutamente e con un certo successo centinaia di mercantili, navi portacontainer, petroliere, yacht di lusso e navi da crociera.
Le origini della pirateria nell’area risalgono ad una ventina di anni or sono, ovvero al collasso dell’ultima entità statale somala presieduta dal Generale Muhammad Siad Barre, un potente signore della guerra locale, che, come in tanti altri stati africani, aveva gestito la res pubblica in maniera pseudo – dittatoriale.
Ciononostante, perfino sotto il suo regime, la Somalia non poteva essere considerata né unita né pacificata.
Conseguentemente, quando questo governo perse il potere, la nazione precipitò in uno stato di anarchia assoluta, dominata da una miriade di signori della guerra, tra cui lo stesso Siad Barre.
In questi anni, ovvero tra il 1991 e il 1995, le stesse nazioni Unite provarono a risolvere la questione somala inviando una missione di pace nel paese, ma senza successo. Per cui, con il ritiro dei caschi blu, completato nel 1995, il paese divenne de facto terra di conquista, come ben presto ebbero occasione di sperimentare le flotte da pesca di tutta la regione.
Infatti, una volta crollato il regime ed essendo andate via le forze di pace, non vi era più alcuna forma di controllo né tantomeno esisteva una polizia di frontiera o una guardia costiera che fosse in grado di proteggere le aree di pesca situate lungo le coste ben all’interno del mare territoriale.
Come ovvia conseguenza, sempre più di frequente pescatori non somali andarono a depredare le risorse ittiche di cui sopra, portando pian piano alla fame tutti quei villaggi costieri che nella pesca avevano l’unica forma di sostentamento.
Stando così le cose, alcuni pescatori cominciarono ad organizzarsi in gruppi e, dopo essersi autoproclamati agenti di una fantomatica polizia marittima locale, iniziarono a taglieggiare le imbarcazioni straniere che si avventuravano in acquee somale, vendendo finte licenze di pesca o più semplicemente estorcendo con l’uso della forza una tassa per lo sfruttamento delle risorse ittiche. Tuttora la maggioranza dei pirati della regione sono proprio pescatori o ex – pescatori armati sia di lenza che di mitra, pronti, se la situazione lo richiede, a passare agevolmente dall’una all’altro.
Da questa piccola attività iniziale, questi pirati – pescatori passarono ben presto ad assaltare ogni nave che gli fosse capitata a tiro estendendo anno dopo anno il proprio raggio d’azione fino a minacciare bastimenti in navigazione in alto mare e quindi ben lontano dalle aree fino ad allora considerate a rischio.
In questo frangente, prendeva forma il fenomeno piratesco somalo così come oggi lo conosciamo.
Tuttavia non è possibile ridurlo ad una mera attività di conquista e rapina, sebbene organizzata, poiché, similmente ai bucanieri di alcuni secoli fa, che sono stati spesso giocatori terzi di guerre altrui, i pirati di oggi, in particolar modo quelli somali, potrebbero trasformarsi con relativa facilità in soldati di cause ad essi estranee.
In particolare c’è il rischio concreto che la pirateria si trasformi in un fenomeno criminale sostenuto, in maniera più o meno diretta, da al-Qaeda e da altre organizzazioni simili di matrice islamica; tanto più che le segnalazioni di infiltrazioni terroristiche nella regione sono già da alcuni anni numerosissime.
Per questa ragione, oltre che per la grave minaccia portata ai traffici marittimi negli ultimi anni si è assistito ad un interesse crescente per il fenomeno da parte di tutti i paesi a più forte vocazione marittima e commerciale, che, a partire dal 2008, hanno costantemente inviato unità navali e aeree a protezione delle navi transitanti nella zona di mare prospiciente il Corno d’Africa.
Il dispositivo messo in campo negli anni è stato ampio e piuttosto variegato poiché accanto alle missioni della NATO e dell’Unione Europea, rispettivamente chiamate Ocean Shield e Atalanta, hanno operato decine di unità navali di altri paesi tra cui bastimenti cinesi, russi e perfino iraniani.
Discorso a parte merita la Task Force 151 che, gestita direttamente dal comando statunitense di base in Bahrain, ha preso il posto nel 2009 della Task Force 150, originariamente dispiegata nell’area in supporto alle operazioni Enduring Freedom ed Iraqi Freedom ed adoperata nei pattugliamenti antipirateria durante le fasi iniziali della recrudescenza del fenomeno. Alla T.F. 151 hanno contribuito ben venticinque paesi con numerose unità navali, da quelle giapponesi, alle pakistane, alle coreane, senza dimenticare quelle statunitensi assegnate alla 5th Fleet che nella maggior parte dei casi ne detengono il comando.
Claudio Maugeri